Stories

Stories

"Esploro la città attraverso la mia Nikon. Le Stories, sono il mio diario "segreto" su Milano, un spazio privato e condiviso dove posso essere autentico e onesto con me stesso. Non esiste modo "sbagliato" di tenere un diario; l'importante è scrivere ciò che sento e in questo caso ciò che vedo.

DAL 38° PIANO DEL PALAZZO DELLA REGIONE

21 Dicembre 2023. È una fredda sera di Dicembre, e l'atmosfera è carica di una magica anticipazione natalizia. Mentre la città si prepara per le festività, ho avuto il privilegio di godere di uno spettacolo spettacolare: un tramonto che dipinge il cielo da una prospettiva unica, dal 38° piano di un grattacielo. Salgo nell'ascensore ipersonico e, man mano che mi avvicino alle altezze, sento un brivido di eccitazione misto a una leggera vertigine. La porta si apre, e sono accolto da una vista mozzafiato che si estende oltre l'orizzonte. Le luci scintillanti della città iniziano a emergere, mentre il sole calante getta sfumature di rosa, oro e arancione sullo sfondo. La luce magica del tramonto e Il calore del Natale si fa sentire anche a queste altezze. Le luci delle decorazioni natalizie si accendono pian piano, aggiungendo un tocco di festa all'atmosfera. È come se la città intera si preparasse a celebrare, e io sono fortunato a essere uno spettatore privilegiato di questa anticipazione natalizia. Ammiro lo spettacolo dal mio rifugio sopra le nuvole urbane. Le persone iniziano ad accendersi, e il rumore della città si fonde con il silenzio incantato del tramonto. È un momento di pace e meraviglia, un'occasione per riflettere sull'anno trascorso e anticipare le gioie che il Natale porterà con sé. Mentre il sole completa la sua discesa dietro gli edifici lontani, lasciando dietro di sé una tavolozza di colori sorprendenti, mi rendo conto di quanto sia speciale questo momento. Il tramonto dal 38° piano del Palazzo sede della regione Lombardia è un regalo, un'esperienza che rimarrà incisa nei miei ricordi come un ricordo indimenticabile di luce, magia e atmosfera natalizia.

MILANO, TORRIDA ESTATE 2023

Se qualche volta ho desiderato trasferirmi ai tropici, in questa estate 2023 è avvenuto il contrario: un clima tropicale si è insediato a Milano, dopo maggio rinominato maggembre, a poco a poco le temperature si sono alzate per poi esplodere in giorni torridi intervallati da fenomeni metereologici drammatici. 25 luglio: mi sveglio in piena notte, un vento feroce fa sbattere tutto e attraverso i vetri un muro d’acqua mi restituisce l’immagine della mia città flagellata da un nubifragio. Il mattino dopo i miei scatti immortalano mucchi di grandine e alberi caduti sulle automobili, abitazioni scoperchiate, occhi di paura e il rosso dei camion dei pompieri ovunque. I parchi milanesi, luoghi amati e cercati per un po’ di refrigerio, vengono chiusi. Sbarrato l’accesso al sollievo; l’emblema del cambiamento climatico è un cancello col lucchetto. Addio plaid sul prato sotto il noce del Caucaso al parco Sempione. Sfido Caronte, Nerone e tutti i gironi dell’inferno per raccontarvi i 40° percepiti 82. Sui social impazza il termometro della farmacia. Attraverso la città rovente e rinuncio al dehors in favore del climatizzatore, quando mi fermo per gustarmi una bevanda energizzante e ghiacciata. Scarpe affondate nell’asfalto di burro. Il monopattino fende l’aria umida: Milano Death Valley. Immortalo le periferie degli anziani col carrello della spesa trascinato nelle ore solo in teoria meno calde. I gelati sciolti subito, il Duomo che pare sudare, i Navigli con 33° alle dieci di sera che rendono la movida festosa un forno da percorrere vestiti ai minimi termini, con un unico pensiero “quando finirà?” Infine il 23 agosto, un mese dopo il violentissimo temporale, si registra il giorno più torrido da quando le temperature vengono misurate. Esattamente vent’anni dopo si batte il record della celebre estate 2003, in una realtà stravolta che fa i conti, ma forse non si rende conto fino in fondo, dell’epoca in cui vive, naviga a vista e aspetta la pioggia.

UN POMERIGGIO DAL BOSCO VERTICALE

Era un pomeriggio luminoso a Milano, e io, da fotografo fotografo, mi trovavo al 26° piano del Bosco Verticale, un edificio avveniristico, un magnifico complesso architettonico rivestito di piante e verde lussureggiante su ogni balcone, un rifugio urbano inaspettato che sfida la monotonia del cemento circostante. Con la mia Nikon mirrorless a tracolla e un treppiede in mano, mi incamminai tra i viali di fiori e alberi che crescevano verticalmente verso il cielo. La luce del sole filtrava attraverso le foglie, creando giochi d'ombra e di luce che danzavano sui muri di vetro e metallo. Era come se la natura avesse deciso di riconquistare la città, di dimostrare che poteva esistere in armonia con l'architettura umana...

MILANO DI NOTTE

Milano di notte La notte anima Milano e se l’appellativo di città che non dorme mai non è stato inventato per lei, si è adeguata alla perfezione. Se davvero Romeo ha detto “È talmente tardi che tra poco dovremo dire che è troppo presto!” alla sua Giulietta o forse è soltanto una trasposizione cinematografica, a Milano tardi e presto si fondono in un unico tempo dilatato, che non è proprietà privata della movida. La musica tunz tunz delle discoteche, la melodia soave dei teatri, la gente di ogni età che lascia i locali a tutte le ore, cerca un taxi o raggiunge la propria auto e si fa inghiottire dal sonno con i bagliori ancora accesi nella malinconia di una serata finita. Milano di notte è lo scalpiccio delle coppie abbracciate che guardano le vetrine dei negozi chiusi e promettono di tornare a fare acquisti, è l’immancabile rumore di un’ambulanza, lo skyline ridisegnato nell’umidità, il selciato bagnato del Duomo anche se non piove da mesi. I semafori lampeggianti di giallo, le macchine finalmente libere di scorrazzare nella ZTL, l’ultimo cane da portare al parco. Milano che anima i navigli, Brera e l’Arco della pace e ci si dimentica che lavora soprattutto negli ospedali, nei servizi essenziali a chi è in difficoltà. Milano dei City Angels e del senzatetto buttato in un angolo che stride con lo scintillio delle griffe poco più in là. Milano del divertimento che inizia sempre più tardi, con le caviglie scoperte anche in inverno, che poi all’inverno è toccato adeguarsi alla moda del momento e si è dimenticato di far scendere le temperature sotto zero. I suoi monumenti nell’oscurità, i contorni quasi invisibili punteggiati da quelle luci che non vengono mai spente. La metropolitana con gli accessi sbarrati, per cui bisogna circumnavigare le fermate in cerca della scala accessibile. Milano sempre aperta, Milano che ai forestieri invece sembra chiusa su se stessa e incomprensibile nella sua generosità strana. Milano dei ragazzini “Ma non dovrebbero essere già a casa a quest’ora?” in giro per un ultimo selfie e una prima brioche calda col cappuccino. Milano che il vero silenzio non sa cosa sia: c’è sempre un faro che ti abbaglia, un rombo lontano, un gatto che miagola, un bacio con lo schiocco di chi si saluta. Milano che corre sul tacco dodici senza inciampare o sullo skate dribblando ogni paura, con un’intensità tutta sua tinta di buio verso un portone nascosto a un’ora improponibile. Milano con le occhiaie e il trucco sbavato non ha orari per le bollicine, anche se per molti è già il momento della sveglia e del caffè.

LA DARSENA

In Darsena Quando ero ragazzino, la zona intorno al bacino d’acqua artificiale che tutti conosciamo con il nome di Darsena era percorribile in auto, e addirittura negli anni ’80 divenne un grande e caotico parcheggio, ideale per chi avrebbe trascorso la serata sui Navigli. Diverse fasi hanno attraversato la vita di questa zona così caratteristica, alcune poco edificanti, ma anche per la Darsena, Expo è stato una vera passaporta Harry Potteriana verso una rinascita che l’ha resa pedonabile, restituendola ai milanesi e ai turisti del tutto trasformata, in un perfetto cardine hipster, con le sue botteghe multietniche. Un percorso lungo quindi per arrivare alla dimensione attuale, finalmente davvero europea. Il mercato comunale è un luogo di incontro e magia, dove interrompere la passeggiata e il chiacchiericcio per fare la spesa o gustare qualcosa al momento; dove si alternano negozi storici e proposte innovative, tra polli, tamarindi, aperitivi e spuntini. Poi c’è quel camminare diffuso all’imbrunire, su e giù instancabili, soprattutto in estate. Coppie, famiglie, bimbetti che scappano dai genitori verso la riva: l’acqua ha sempre una forte attrattiva e diventa magica se si rispecchiano le luci dei locali e quella della luna, mentre le canoe che la percorrono sono un valore aggiunto. I gelati sciolti sulle mani, i selfie e i baci sul ponticello, intanto il cielo dipinge la fine di un’altra giornata, scegliendo ancora una volta l’oscurità, e chiunque può illudersi di essere altrove e a Milano contemporaneamente. Perché un confine tra i luoghi qui non c’è e noi in questo ci sguazziamo.

CHENGDU AND HER EUROPEAN SISTER CITIES

Mi sento molto orgoglioso e felice di avere avuto l’opportunità grazie anche a VisitMilano di esporre i miei scatti fotografici di Milano in una città così lontana e diversa dalla mia, quale Chengdu, in occasione del “Photo Exhibition of Chengdu and her European Sister Cities”.

MOSTRA DEL POSTER, IDEE REGALO E SOLUZIONI DI ARREDO CON LE STAMPE DI MILANO

Carlo guardò l’orologio: dieci minuti di ritardo, strano, Fulvio era sempre puntuale, ma non se ne preoccupò, nell’attesa annuì al cameriere che gli offriva un prosecco. Quando, un quarto d’ora prima, era entrato nello studio di Fulvio, l’aveva trovato chino sul computer della receptionist, gli aveva fatto un cenno con la mano: “Vai, vai, inizia a prendere un tavolo, altrimenti si riempie, arrivo subito.” E così era stato. Carlo e Fulvio erano compagni di condominio in corso Venezia: Carlo, dentista, al terzo piano, Fulvio, notaio, al piano rialzato, si erano conosciuti molti anni prima e nel tempo avevano trovato diversi punti di affinità. Talvolta mangiavano insieme nel bistrot in fondo alla via, ma purtroppo, più spesso, erano costretti a rimanere in studio per accontentare qualche cliente o paziente che sfruttava la pausa pranzo per un rogito o un’otturazione. Altri dieci minuti. Carlo stava per chiamare Fulvio, quando lo vide entrare trafelato, il cappotto allacciato male, coi bottoni sfasati nelle asole, e i capelli scarmigliati, come al solito all’inseguimento della vita. “Scusa, scusa. Hai già ordinato?” Gli disse col fiatone, poi afferrò il menù del giorno senza spogliarsi né sedersi. “No, aspettavo te. Ma ti prego fai con calma, io non ho alcuna fretta, un colpo di fortuna, si fa per dire che poi lo pagherò con gli interessi, ma mi è saltato un appuntamento per l’estrazione di un molare particolarmente complessa. Tu piuttosto, rogne?” “No, no, tutt’altro. Adesso ti dico. Io prenderei il salmone. Tu?” “Stavo valutando i pici senesi.” In un attimo il cameriere prese la comanda e Fulvio parve rilassarsi. “Dunque, mi sono un po’ perso dietro al sito DearMilano, e la cosa buffa è che me ne ha parlato il mio cliente tedesco con quel nome impossibile, sai quell’industriale che ha comprato mezzo palazzo in viale Ezio, che io chiamo affettuosamente Otto. Insomma ci sta questo fotografo Paolo Marchesi – così dicendo digitò velocemente sullo smart phone e lo porse all’amico – che fa queste foto con un taglio un po’ dark, Otto l’ha scovato su Instagram e se n’è innamorato, alla fine si è fatto stampare alcune foto di City Life e le ha appese nel suo studio dell’appartamento di Berlino, in modo da avere sempre il suo panorama preferito sotto gli occhi.” “Caspita, sono davvero splendide. Quindi questo Paolo spedisce le sue fotografie?” “Non proprio, c’è questo posto, ed è quello che stavo guardando prima in internet, si chiama La Mostra dei Poster in galleria Buenos Aires, dove si trovano già parecchie tele, il che per me rimane comodissimo.” “Altroché, da qui volendo ci vai pure a piedi.” “Certo che qui si mangia sempre bene, vero?” “Decisamente, il salmone era divino. Mi sa che prendo anche il dolce.” Carlo declinò, la pasta era stata abbondante e ricca di sugo, pensò all’apparecchio del piccolo Gigino, urlatore professionista, che lo aspettava alle 16 e optò per un amaro. … Dieci giorni dopo Entrando nello studio dentistico, il rumore del trapano accolse Fulvio, salutò Miriam, la segretaria, e le disse che avrebbe aspettato Carlo. “Non ci vorrà molto, la seduta dovrebbe terminare a breve, la paziente è già sotto da quasi due ore.” Fulvio trasalì: non aveva mai superato la paura del dentista, nonostante riconoscesse che il tocco di Fulvio e della sua assistente fossero davvero delicati. Poco dopo infatti Carlo accompagnò una giovane donna all’uscita, le strinse la mano e si premurò con Miriam circa l’appuntamento successivo, finalmente, come se se ne fosse dimenticato, si tolse la mascherina. “Caffè? - Propose Carlo vedendo il notaio – Ho bisogno di un po’ di carica, quell’impianto è stato un vero osso duro. Osso duro per un dente, ah buona questa.” Fulvio non poté fare a meno di pensare che a quella ragazza fosse capitata la sorte peggiore ma cercò di scacciare l’immagine dalla mente. “Se hai un attimo perché non vieni di me, prima che arrivi la Baronessina? Ho idea che la sua successione farà il paio con il tuo intervento, in quanto a procedure complesse. Voglio mostrarti qualcosa.” “Va bene, dai, scendiamo.” Fecero le scale quasi di corsa, lodandosi reciprocamente per quanto si sentissero, e in effetti erano, ancora agili e scattanti nonostante i cinquanta fossero lì sulla soglia per entrambi. Attraversarono l’ampio ingresso e Fulvio fece strada nel suo studio elegante. La receptionist li seguì subito con due espressi e li lasciò soli. Una tela esclusiva con una veduta di piazza Duomo, fotografata dall’alto nella blue hour, troneggiava dietro l’importante scrivania ingombra di documenti. I due uomini rimasero alcuni istanti in silenzio ad ammirarla. “Bella, eh?” Chiese Fulvio mostrandosi visibilmente soddisfatto per l’acquisto. “Sono senza parole. Penso che ne prenderò una anch’io, se per Natale regalo l’ennesima borsa a Marta, me la tirerà dietro, in più si lamenta sempre per quel quadro in camera, che in effetti non è un granché…” “Allora dai un’occhiata su Instagram e sul sito DearMilano, poi ti accompagno volentieri.” “Perfetto, grazie. L’unico problema sarà trovare un momento in cui siamo liberi entrambi, ultimamente anche il sabato è un delirio. Eh sì, siamo davvero due uomini molto impegnati. Anzi, devo proprio scappare, il terribile Gigino ormai starà arrivando.”

LA METROPOLITANA MILANESE

Oggi in qualche modo sorprendo me stesso, e forse anche voi, con un’incursione, sotterranea mentre di solito preferisco l’elevazione. Ho infatti deciso di esplorare la metropolitana milanese nelle sue quattro linee, che si espandono come una ragnatela di colori scendendo anche molto in profondità su diversi livelli. Dalla più vecchia, la storica Rossa che si estende fino alla fiera di Rho e dall’altro capolinea a Sesto San Giovanni, fino alla nuova Lilla, dove, come se avessi sei anni, mi siedo davanti, godendomi la galleria che si snoda dal finestrone che ho di fronte. Il convoglio è privo di autista, e la cosa mi diverte parecchio perché vedo snodarsi quell’oscurità che amo e posso fotografare la voragine sinuosa da un punto privilegiato che le altre linee non consentono. Le portine di vetro che delimitano l’accesso ai binari sono un’altra sostanziale differenza: si aprono solo all’arrivo dei treni. La caratteristica della Verde invece è che dopo la fermata di Cimiano esce allo scoperto verso Vimodrone, Cernusco, Gessate e incontra il cielo. L’effetto è notevole nelle giornate di sole e nelle ore di luce, ma è altrettanto suggestivo di sera, quando si passa dal buio dei tunnel a quello completamente diverso dell’ambiente naturale che conquista centimetri di tenebre fermata dopo fermata. Ogni stazione è un satellite della metropoli che polarizza l’umanità di chi ha scelto di vivere fuori stando in qualche modo dentro la città. La linea Gialla è l’innovazione, la sua costruzione è terminata nel 2003, ha carrozze chiare con incomprensibili panchette verdi, non dovrebbero essere gialle?, tempi di attesa ridotti e incrocia la Rossa nel cuore di Milano: piazza Duomo. Ovunque la metropolitana è un luogo di incontro, dove in realtà ci si sfiora senza veri contatti, se non quelli sussultori delle brusche frenate e delle corse per salire al volo prima della chiusura delle porte. E se in molti si danno appuntamento nel mezzanino, alla fine il dedalo inframmezzato da edicole, col suo pavimento a bottoni di gomma, è la sintesi perfetta della frenesia milanese fatta di veloci sguardi e identità perse che potremmo rincontrare altrove ma non riconosceremmo. Sono in piedi, i continui avvisi mi ricordano di tenermi agli appositi sostegni, di fronte a me siedono un ragazzo e una ragazza approssimativamente poco più che ventenni, si somigliano molto, forse sono gemelli, hanno i capelli di quella particolarissima e rara sfumatura di rosso intenso, non carota, con gli occhi marroni, l’incarnato chiaro e le lentiggini, se fossi un ritrattista li sceglierei subito per i miei scatti. Ma la vera sorpresa è che quando ci fermiamo la femmina si alza e scende, senza salutare né dare neppure uno sguardo al maschio. Non si conoscono nemmeno, altro che gemelli! La metropolitana vive di istanti come questo, personalità sfuggenti e pensieri degli altri che possono immaginare mentre lo sferragliare del treno accarezza le elucubrazioni fantasiose. Orari diversi, emozioni contrastanti, la sonnolenza della mattina, e la stanchezza della sera. Il vociare allegro degli studenti nel primo pomeriggio, il nero del loro abbigliamento, il fluo delle chiome di molte ragazze. Le signore retrò della domenica dopo pranzo, verso un teatro, o una pasticceria, impellicciate in inverno, gli sguardi sciolti a parlare con l’amica dei nipotini. Gli occhi sui cellulari, più raramente su un libro o una rivista. Gli occhi sui piedi, i passeggini che ingombrano, il musicista improvvisato dei Balcani, il tintinnio della moneta che cade per compassione. Il terzetto di archi che suona all’incrocio in Duomo tra la Gialla e la Rossa, forse hanno frequentato il conservatorio, sono bravissimi, elegantissimi, fuori contesto eppure perfettamente incastonati come un diamante nel giusto anello, perché soltanto qui possono suonare per un pubblico vastissimo. Le scale scivolose di pioggia, l’odore forte del caffè nei barettini vicino alle obliteratrici, i tornelli scavalcati, le macchinette per l’acquisto dei biglietti, i venditori di ombrelli che appaiono all’improvviso con le prime gocce, manco avessero un sensore. La sporcizia negli angoli, le scritte dei vandali, la pubblicità panoramica. Il rumore di ferro che impedisce di mandare messaggi vocali e di ascoltarli, l’intimità di raccogliersi sul marmo in attesa di andare altrove, forse soltanto in ufficio.

MILANO AUTUNNALE

Milano in autunno è il meteo gestito dal giullare alla corte degli Sforza: fa cazzate, io esco in T-shirt in un sole che strizza l’occhio ai rigurgiti estivi e dopo un’ora entro in un bar e chiedo una cioccolata calda per non crepare assiderato. Milano camaleontica finge ogni quarto d’ora di essere una stagione differente, si trasforma a ogni angolo, mentre i milanesi non le stanno dietro e arrancano con out fit tremendi tra piumini e infradito. Milano in un giorno qualunque tra il 20 settembre e il 20 ottobre all’improvviso non scherza più, manda in vacanza il burlone, prende il suo cappello coi campanellini, lo fa vorticare nel vento che scompiglia le chiome frondose degli alberi di c.so XXII Marzo, e decide che l’autunno è arrivato sul serio. Quando l’autunno è ufficiale, anche per le temperature, Milano se ne fotte del foliage del New England e fa una gara tutta sua, coi suoi parchi e il verde cittadino delle periferie che non lo diresti mai, ma sono le zone più green della città. A quel punto io posso solo assecondarla: sfreccio sul monopattino che in questo cazzo di venti-venti è diventato di moda ma io lo usavo già prima e immortalo la contraddizione di una stagione che per raccontare la morte s’inventa la più sfolgorante delle vite, perché vite è il plurale di vita, ma anche la vite che dà i grappoli raccolti proprio in questo periodo, e a Milano c’è ancora una vigna celeberrima, quella di Leonardo, con i filari originali e gli eventi fighi nelle sue stanze sontuose. E poi piove, piove a dirotto e il mucchio di foglie croccanti color ocra diventa una cosa deprimente e fangosa, ma io che amo le altezze dirigo lo sguardo verso un cielo rubato a un film horror, mi specchio nelle nuvole di pece e mi vedo per davvero, mi vedo sorridere complice con questa città così potente che ammalia già con le prime palline rosse e oro e le lucine invitanti di Natale. Il fragore di un tuono mi riempie le orecchie e il cuore balla la rumba al ritmo del ticchettio delle gocce su una serranda. Piove di traverso, allaga certe strade, esonda il Seveso, un mezzo nubifragio fa grondare i cani e scappare gli studenti, via via di corsa dopo le lezioni, giù come pazzi, sui gradini scivolosi della metropolitana, dove m’infilo pure io, oggi niente monopattino. Proteggo la macchina fotografica come un cucciolo tra le mie braccia, che nessuno mi urti, ed eccolo lì, il venditore di ombrellini senegalese, puntuale come l’Intercity da Zurigo, “non me ne faccio un cazzo di un ombrello, amico!” Ho il mio cappellino e poi scommetto che quando esco avrà già smesso. E’ così, la pioggia ha lucidato la via, ma un sole colore limoncello sbiadito appare oltre la torre dell’Unicredit, in fondo non è neppure così freddo. Il caldarrostaro mi tenta con il primo cartoccio bollente, le mani si fanno nere, un bambino insiste a fare incursioni in una pozzanghera, mentre la madre è troppo presa dal suo cellulare per sgridarlo. Milano in autunno è un cubo di Rubik con tre soli colori: grigio, arancione e il bianco della nebbia nei prati che ancora la circondano in diversi punti, giro le tessere del cubo clak clak, sono sempre stato una pippa con sto cazzo di giochino, fino a comporre la foto perfetta di una città dove l’autunno è una quinta stagione tutta sua.

BUIO

I milanesi chiusi nei loro appartamenti, oppure fuori, mischiati a chi, in città, ci è arrivato per svago o lavoro. Notte, il contrasto delle luci, la bellezza travolgente dell’inquinamento luminoso che rende perfetto un problema ambientale, paradossi: qui non è mai davvero dark, se non succede un black out. Il Duomo, la Galleria, la Stazione Centrale, City Life, nuvole, stelle, vita in uno sky line che arriva ad emozionarmi. I nuovi grattacieli cresciuti in fretta a svettare verso quel blu potente che mi avvolge mentre mi muovo con la mia fotocamera per catturare le sfumature della notte. In ogni angolo un frammento di esistenza che potrebbe svelarsi se solo bussassi a una finestra di quel palazzo, se entrassi in quel piccolo bar accanto sulla piazza, dove qualcuno forse sta bevendo l’ultimo caffè prima di rincasare. Ma io no, io non busso, non entro e spesso il mio sguardo arriva dall’alto come quello di un gigante, ma è a un amante che in realtà io somiglio. Sono l’amante della notte per cui non è ancora ora di rientrare. Sono la novantasettesima gargoyle del Duomo, il mostro che protegge le cattedrali gotiche. Sono il vampiro che si aggira oltre la mezzanotte. Imprigiono il buio e lo porto con me. Per voi.  

“ASPETTATE, posso spiegarvi tutto!”

La mia professione mi dà alcuni privilegi. Per esempio posso accedere liberamente al tetto della Torre Velasca, il grattacielo di 26 piani con la sua tipica forma a fungo che lo rende immediatamente riconoscibile nello skyline cittadino. Sono quasi le 22 di un giorno di luglio, il caldo ha intorpidito la città e non è vero che la sera rinfresca. Quando il buio avvolge Milano tutto il calore della giornata viene in qualche modo buttato fuori e l’aria torrida dei condizionatori fa il resto. Arrivo fino in cima alla Torre Velasca e non sento più nulla, siamo soltanto io, la mia Canon e il cielo. Voglio processare una serie di foto scattate in sequenza. Cerco il punto giusto dove piazzarmi, e nonostante abbia già visto il panorama da qui un sacco di volte, e questo monumento sia stato addirittura inserito nella lista dei più brutti al mondo, io, proprio da qui, capitalizzo nuovi momenti felici di stupore. Da qui il cuore di Milano è veramente ai miei piedi. Comincio a lavorare e all’improvviso sono dentro un film americano, uno di quelli dove mi tocca dire: “Aspettate, posso spiegarvi tutto!” E spero di essere abbastanza convincente. Nelle pellicole di solito no, il malcapitato non lo è, e di lì a poco si ritrova protagonista nel gioco di ruolo “poliziotto buono/poliziotto cattivo”, cercando di salvarsi le ossa. Un gruppo di poliziotti mi punta le pistole addosso. Gocce di reale paura scendono ghiacciate nel colletto della camicia. Lo spavento annebbia i contorni, la Torre si trasforma in un set dell’orrore. Mostro autorizzazioni, ribadisco di essere perfettamente in regola e annaspo cercando di capire cosa diavolo stia succedendo. A quanto pare un cittadino mi ha visto sul tetto e pensando chissà cosa ha pensato di chiamare le forze dell’ordine. La sfortuna e la negligenza questa sera stanno facendo gli straordinari col divertimento: al cambio turno il guardiano non è stato avvisato della mia presenza sul tetto e a questo punto a nulla servono le mie rimostranze documentate. Mi portano via. Sono le due di notte quando finalmente lascio la Questura, riabilitato, stravolto, con una storia diversa da raccontare, perché Milano oggi ha dato forma a un racconto realmente dark, con creature notturne inaspettate e ho avuto la concreta percezione sensoriale che nel buio a Milano tutto possa davvero accadere.

MI in BN

Raccontare Milano in bianco e nero annulla le centinaia di sfumature delle sue ville liberty, dei fiori a primavera, del foliage autunnale, degli arancioni pavidi di certi tramonti e dello sfolgorante, quanto raro, cielo azzurro anice da mangiare al cucchiaio, eppure vale davvero la pena di farlo. Milano in bianco e nero accentua le sue contraddizioni, esalta i contrasti e propone una narrazione di grande impatto emotivo, giocata sui toni del grigio, la tinta del suo asfalto, il tono del suo umore ma soltanto per chi non la conosce e non potrà mai farsi amare da lei. Milano in bianco e nero offre una storia retrò, ci riporta indietro negli anni, quando – ma che bel tempo era – non erano tutti fotografi grazie a uno smart phone e toccava avere la pazienza dell’attesa per ammirare gli scatti sulla pellicola. C’è una raffinatezza unica nel bianco e nero, il Duomo appare ancora più gotico, le gargoyle si stagliano con maggior vigore spogliate dei colori che le circondano e le vetrate sembrano vestite a lutto. Il Castello assume una sembianza inaspettata, tutto parla un linguaggio rinnovato nel suo balzo all’indietro. Il bianco e nero chiede raccoglimento, non concede distrazioni per il giallo del tarassaco e il rosso dei papaveri nelle aiuole cittadine, non lascia che lo sguardo si soffermi sulle panchine verdi né su quelle rosse allestite in difesa dei diritti delle donne. Milano in bianco e nero cancella gli arcobaleni, ma non è mai banale e regala una realtà differente: si irradia in uno stile crepuscolare che ci fa diventare tutti poeti. Milano così è malinconia, evoca silenzi che non conosce, urla discordanze e si dimostra coraggiosa privandosi della vivacità, non teme confronti col fucsia, il turchese, l’ocra e il verde acqua. Milano in bianco e nero, per chi non c’è mai stato, propone una storia piena di domande. Le fontanelle chiamate “draghi verdi” dai milanesi, ora sono color piombo e il forestiero potrebbe immaginarle viola oppure blu. La fantasia acrobatica di chi la ammira nella sua essenzialità gioca a inventare possibilità, ma Milano in bianco e nero non ci sta, nessuno può sostituire i suoi colori, scambiare i dettagli e fare a modo suo. Milano in bianco e nero ha soltanto deciso di vestirsi di sobrietà per una volta, per tornare variopinta a piacimento del fotografo.

LA STAZIONE CENTRALE

Sono le 17 del 10 dicembre. Il cielo è terso grazie al sole degli ultimi giorni e in particolare oggi c’è stato, soprattutto la mattina, un vento con alcune raffiche potenti. ho visto le foglie color ocra ormai tutte a terra, sollevarsi più in alto di me, in un vortice come uno stormo ed è stato bellissimo. Arrivo in sella al mio monopattino in piazza Duca d’Aosta; prima di tutto però mi dirigo verso piazza della Repubblica, un tempo zona di grandi alberghi lussuosi. Il traffico comincia a farsi congestionato e il monopattino è una benedizione. Salgo sul tetto di una delle due torri per poter fotografare anche via Vittor Pisani e la stazione stessa dall’alto, illuminate dallo sfavillante circo di luci di Natale e degli sponsor che rendono possibili serate come questa. La magia prende forma in uno scenario che, da qui, assume toni avveniristici e nostalgici insieme. Scendo e torno in sella, pochi metri ed eccola lì, di fronte a me, la facciata immutata dal 1931, la Stazione Centrale, una costruzione imponente, con l’esterno ricco di statue. Oltre alla sua naturale funzione di grande fascino: l’essenza stessa del viaggio, i saluti ai binari sono molto più evocativi di quelli che avvengono in un moderno aeroporto, rappresenta uno dei luoghi simbolo della mia città in cui è racchiusa la mia suggestione preferita. Con la sua conformazione su più piani, sormontata da arcate di vetro e ferro, la struttura raggiunge infatti ben 72 metri di altezza. L’aria è frizzantina e tutto intorno a me va scurendosi in fretta. Il consueto traffico è amplificato dalla serata particolare e dal fatto che qualcuno anticipa già la partenza: mancano solo 15 giorni a Natale. Entro e come sempre mi guardo in giro, nonostante conosca questo luogo piuttosto bene, soffermarmi sui suoi dettagli non smette di piacermi, scopro sempre qualche angolino che attira la mia Nikon. In tempi recenti, tra il 2005 e il 2010, la stazione ha subito un rimodernamento davvero necessario. Oltre agli unici due bar tristissimi coi pavimenti perennemente ricoperti di briciole, dove caffè e cappuccino venivano serviti in orribili tazze marroni, è stato smantellato praticamente tutto e sostituito con una sorta di galleria di negozi in verticale, dove, a ogni livello, si possono trovare barettini con una certa personalità, mentre i veri elementi portanti sono rimasti immutati. Così, malgrado la costruzione di moderne scale mobili un po’ a serpentone, per cui non capisco mai bene quale direzione devo prendere per arrivare ai binari, sono sopravvissuti il salone delle biglietterie e i maestosi scaloni in marmo, che danno una vera idea di elevazione verso un passaggio onirico che può condurci altrove. Una ragazza con un buffo berretto solleva con fatica una valigia, gradino dopo gradino. Salgo anch’io, col monopattino ripiegato sulla spalla. La mia mente si fonde con il magnetismo di un’ipotetica, quanto reale, scalata alpinistica e finalmente accedo all’anima della stazione: la galleria di testa, con i 24 binari. Questa sera la stazione verrà illuminata per le ormai prossime festività natalizie. Bagliori suadenti che la vestiranno esattamente come farebbe una bella donna che si prepara per il veglione. Uno sguardo in alto, verso le cupole in stile liberty, laddove la stazione in realtà è un insieme piuttosto confuso di stili architettonici diversi, e molti sguardi in basso, con la precisa percezione di essere, e in effetti lo sono, sopraelevato di parecchio. Poi c’è la luce naturale, che filtra ovunque, dai grandi archi agli ingressi e dal tetto. L’ora blu raccoglie e accoglie i viaggiatori della sera, che magari trascorreranno l’intera nottata in treno. Nella modernità di un’epoca dove si attraversano i gate mostrando uno smart phone, molto dell’atmosfera della prima metà del secolo scorso è rimasto, o forse anche tutto, perché in treno le capitali europee e il sud d’Italia anche con l’alta velocità rimangono mete lontane, con percorsi lunghi, magari trasbordi, e il vero gusto del viaggio parte e si amplifica proprio da qui, da una delle stazioni ferroviarie più belle del mondo. I miei occhi e la mia Reflex guardano giù chi ancora deve raggiungere questa zona, chi magari prenderà posto nell’area dedicata all’attesa, del proprio treno o di un amante, un’umanità diffusa e da qui minuscola che incarna il senso della vita: andare avanti e non fermarsi mai. Intanto tutto è pronto: un luna park di luci che ammalierà chiunque. Inquadro e comincio a scattare. Signori, in carrozza!

TRAMONTO SULL'ANTENNA RAI

Il palazzo della Rai in corso Sempione, con la sua antenna che svetta, è sempre riconoscibile, anche ora che lo Skyline di Milano è così cambiato, oltretutto i grattacieli di City Life sono molto vicini. Sono certo che possa offrire un punto d’osservazione privilegiato e sento l’adrenalina attraversare la mia spina dorsale, mentre chiudo il monopattino e mi appresto a salire sul Centro Trasmittente, questo è il nome corretto e completo. Privilegio che mi è capitato oggi, in una sera di ottobre, quando già, sotto di me il foliage cittadino comincia a farsi notare, con la sua tipica forza struggente. Vermont, scansati, che qua siamo a Milano. Mi affaccio dall’antenna in un giorno in cui i miei pianeti hanno evidentemente deciso di allinearsi: per quanto io adori la pioggia, il cielo sereno gioca a mio favore e me lo godo tutto. Poche nubi di panna all’orizzonte si colorano di arancione, mentre intorno a me un tramonto epico esplode in un incendio stupefacente. Avverto quasi il calore delle fiamme, tanto la suggestione è perfetta. Sono il bambino che sale sulle spalle del padre e si sente altissimo, esploro a 360° il panorama con i suoi punti verticali fatti di torri e montagne incandescenti. Tinte inaspettate sfumano in violente policromie, scatto al ritmo vorticoso dei minuti che mutano questa cornice velocemente. Non durerà a lungo, ma intanto mi ammalia, come un vino, come una donna, quando sono speciali e solo nostri. Sono il bambino, ma anche l’adulto consapevole che bellezza significa contrasto; il sole che muore è vivissimo nella magia elevata di quassù: laggiù in strada non sarebbe altrettanto potente e mio. Penso alla Radio televisone italiana che crea spettacoli di continuo e il più bello ce l’ha qua, sul suo tetto, senza bisogno di presentatori e programmi, ma solo di occhi per guardare e cuore per capire che la natura e la città sono al top, perché hanno saputo fondersi con rispetto una nell’altra.

MILANO CON LA PIOGGIA

Milano lucida di pioggia è la perfezione assoluta, con la sua potenza plumbea interrotta dalle macchie di colore degli ombrelli. In ogni goccia si rispecchia la sua bellezza e io adoro Milano che schizza acqua, nelle tipiche caratteristiche delle differenti stagioni. Nei fragorosi temporali estivi che comportano il fuggi-fuggi dei turisti sui navigli sotto la prima tettoia, come nella pioggia battente d’autunno che lava le ultime foglie sui rami e rende scivolose quelle sui marciapiedi. Mi piacciono gli acquazzoni d’aprile, quando la primavera tarda ad arrivare e il sole tenta invano di squarciare il cielo, ma amo anche la piggerellina fine e ghiacciata di gennaio, quando la gente si interroga se si trasformerà in neve, le sue frecce ti arrivano in faccia gelate e non hai scampo. Ovunque c’è una luce diversa quando piove, c’è un palazzo seicentesco che si increspa nello specchio sporco di una pozzanghera, quando tenti di scavalcarla e la scarpa affonda nel mezzo. Ci sono le vie bagnate e il verde dei suoi parchi che brilla di più. Quando le ore del giorno lasciano il posto a quelle della sera la traslucenza delle precipitazioni lustra a festa la città. La pioggia a Milano è una cascata di carte d’argento dei cioccolatini che plana leggiadra e del cioccolato ha la stessa magia. Le lacrime di pioggia milanesi si declinano in una gioiosa malinconia.

VELODROMO VIGORELLI

28 luglio 202, fa un caldo atroce, il cellulare mi informa che ci sono 33 gradi ma se ne percepiscono 37. Sono uscito tardi, tentando di arginare le temperature torride che da qualche giorno hanno avvolto Milano. Inforco il mio monopattino, direzione Vigorelli. L’impianto sportivo si trova in quella che una volta era la “Zona Fiera”, nato per il ciclismo su pista, chiuso e riaperto più volte, ora viene utilizzato per il football americano. L’attuale dimensione moderna è resa ancora più magica dalle tre torri di City Life che si stagliano dietro di lui, impensabili all’epoca delle corse di Francesco Moser. Mi piacciono queste suggestioni, i contrasti di una città in movimento che offre prospettive trasversali e sa mettere gli accenti sulle sue contraddizioni, elevandole a pregi. Questa parte della città è cambiata parecchio, prendo una curva in velocità senza dimenticare la giusta cautela e arrivo. Sono felice: devo fotografare un monumento storico che ha saputo rinnovarsi, un vero emblema dello spirito più autentico dei milanesi. Appoggio i piedi sul prato verde e soffice, guardo le gradinate e mi impegno a trovare i punti perfetti per imprigionare l’anima sportiva del luogo. Voglio produrre delle immagini che possano restituire il gusto della competizione, farla vivere anche nel vuoto degli spalti privi di pubblico. Mi fermo, manca poco all’ora blu. Il cielo ancora una volta è il mio alleato migliore, fa il suo lavoro senza soste e mi regala la cornice ideale per ciò che ho in mente: colori netti, decisi, privi di indugi, come un ciclista in piedi sui pedali o un giocatore di football che placca l’avversario nell’attimo decisivo della gara. Tenacia e sudore. Le poche finestre accese a quest’ora delle tre torri sono occhi curiosi che si affacciano bianchi e gialli sul velodromo. Nuvole di rincorsa. Le righe per terra, che delimitano il campo di gioco dei Rhinos, creano geometrie perfette che percorro cercando angoli strategici per gli scatti. Sono anch’io un atleta: ho la stessa ansia per il fischio d’inizio e non perdo mai la voglia di partecipare.

MAGNOLIE E SOCIAL

I cieli azzurri di questa primavera sfolgorante sono spesso solo dalla finestra, mentre dai balconi non si canta più! Poche piogge reali e molti temporali interiori. Lo so, cazzo, lo so che la situazione è diversa dal lock down di marzo 2020, che c’è chi sta peggio, ma la fatica si stratifica e la bellezza ingabbiata di una Milano senza pubblico è troppo triste. Milano dal canto suo se ne frega, lei esplode, regala piante di struggente fulgore: le magnolie intorno al Duomo, e quella super fotografata in piazza Tommaseo. In Bicocca ci sono i ciliegi e ogni minuscolo giardinetto cittadino ha la sua macchia che va dal rosa confetto al rosa shocking e fa a gara con il foliage autunnale a dichiararsi la migliore. Bisogna approfittare della spesa, infilare tra le borse, con i primi asparagi e l’uovo di Pasqua, le occhiate catturate, portarle a casa e custodirlo con cura. Un albero inaspettato al semaforo, non conosco il nome - esistono i pruni a Milano? – mi consola l’animo afflitto. Scatto. Ci saranno foto sbilenche nei telefonini di tutti, immagini riproposte tra un anno dalla memoria del cellulare, e magari nel 2022 potremo finalmente dire “ma dai, ce l’abbiamo fatta! Fanculo mascherine, distanziamento…” Lo scorso anno non avremmo mai immaginato di ritrovarci ancora a questo punto. Milano merita la gente fuori, senza paura, con lo spritz color tramonto e la luce allungata dell’ora legale per stare in giro e ingannarsi. Gli attori al termine dello show, le mani strette dell’ultimo spettatore rimasto all’uscita ad aspettarlo, per fargli i complimenti. La stretta di mano, chi se la ricorda? Mi fermo a controllare la mia macchina fotografica, mi guardo attorno: un ragazzino stanco della Dad sfreccia in bici sul vialetto, in questo parchetto il panorama sembra quasi normale. Ai miei piedi uno spazio candido di margheritine e non ti scordar di me, i primi a spuntare, spesso già in febbraio, avamposti impavidi, annunciano la stagione più crudele. Quella delle gemme che diventano fiori con pochi applausi e gli sguardi rivolti al telefonino, per socializzare nell’unico modo possibile.

L’ESTATE DEL NOSTRO SCONTENTO

Sembrava impossibile, ma da calendario quattro mesi dopo il “caso Codogno”, che ha trasferito la Lombardia in una realtà distopica, è arrivata l’estate. Il Dio del Meteo, più clemente di quanto sia stato negli ultimi anni, ci ha – almeno al momento – risparmiato Caronte, Nerone e similari e saluta le mattine dei milanesi che hanno ancora un lavoro fuori casa con la giacchetta. Mascherina, giacchetta e monopattino elettrico, oppure metropolitana. Chi si è accorto che hanno cambiato la segnaletica dei posti a sedere dei convogli, quelli in fila per tre? All’inizio su tre sedili se ne poteva occupare solo uno, quello centrale, ora i due laterali. Il mio occhio attento, sempre all’erta per captare i dettagli da fotografare, nota persone sovrappeso che debordano e riducono di parecchio quel metro di distanza sociale che ormai è diventato la misura di tutto. Milano svuotata dai turisti che non arrivano, Milano e le lacrime degli esercizi commerciali chiusi, dei tassisti fermi al parcheggio, della fetta non occupabile ai tavolini dei bar, dove accanto al caffè c’è sempre il disinfettante. Sui balconi non si canta più, la periferia è diventata il recinto di chi non si avventura in giro e vive le giornate scandendo le ore con la Tv e la spesa sotto casa. Trionfa la schiscetta, che con la bella stagione poi, è pure più facile da mettere insieme. Gli impiegati se la raccontano, mentre la forchetta afferra il fusillo e in fondo rimpiangono i piattini pronti del bar. Il pomeriggio allunga le sue ombre sui milanesi, imbruttiti e non. Il teatro del far finta mette in scena una commedia priva di applausi, la normalità sembra davvero normale solo se annaffiata con ampie dosi di ottimismo e di cecità. I diversi livelli di mascherinamento: messa bene, messa col naso fuori, messa sul braccio, non messa del tutto, sono l’emblema della paura, del rispetto per gli altri, del sentirsi fuori dalla pandemia, della voglia di ricominciare. Non si riparte coi centri estivi chiusi e i bambini ridotti a serie A, coi i nonni milanesi facoltosi con case al mare che transumano i nipoti per tre mesi, e serie B, quelli che si ingegnano nei parchi, tra i gelati sciolti e gli occhi acquosi, fissi sui compiti delle vacanze, mentre sperano di non ricominciare a settembre con la didattica a distanza. Arriva la sera, la metropolitana si riempie, chiudono i tornelli, mettersi in fila grazie. Attese. In molti ci provano a impilare piccoli mattoni di fiducia a forma di patatine e si rinnova il rito dell’aperitivo. Nelle periferie, dove qualcuno si ingegna a offrire in anonime piazze del Gallaratese una parvenza di allegria, che strizza l’occhio alle zone fighette. Plauso all’ingegno degli esercenti che sorridono e vedono il bicchiere mezzo pieno, per me sempre alcolico, grazie. Mi sento di trionfare per i banconi dell’happy hour vietati, decenni di avanzi del pranzo hanno ammazzato lo stomaco di molti e annullato il vero piacere dell’aperitivo, riducendolo allo svilimento del buffet dei villaggi turistici. Qualcosa di buono il covid l’ha fatto. Milano ci prova, Milano ripensa a cinque anni fa, quando tutto cominciò con ExPo ed è ancora incredula per l’oggi. Il sagrato del Duomo vede i piccioni svolazzare senza troppa gente, le norme di Starbucks per evitare il contagio mi appaiono confuse e vorrei correre fuori, scappare via dalla città che amo, raggiungere un posto fantastico dove esiste la macchina del tempo, riavvolgere il nastro, tornare a gennaio, suggerire strategie più efficaci, quelle del senno di poi, perché adesso il poi è un salto nel vuoto. La notte guardiamo fuori, in cerca di comete, per esprimere desideri feroci, spremere le stelle e farci una spremuta di speranza. La vita è profondamente dentro di noi, anche nei viaggiatori che Milano non accoglie più, perché il mondo come lo conoscevamo forse non tornerà. Tocca sprigionare scintille nei piccoli gesti, nel ricordo della Milano del business, nell’impossibilità di trovare un taxi nei giorni del Salone del Mobile e di tutte le fiere annullate. Milano vive un momentaneo stand by, come quando metti in pausa la lavatrice, sta solo studiando il modo per tornare a splendere; il Duomo, in fondo sta lì da 600 anni. Troveranno il vaccino e Milano vincerà; a quel punto forse ripenseremo con malinconia a questa estate 2020, senza assembramenti, con un cielo color anice da mangiare al cucchiaio, il plexiglass ovunque, gli abbracci negati e la fortuna di essere sopravvissuti.

STRANI GIORNI

Strani giorni C’era una canzone perfetta, anzi c’è, le canzoni non muoiono, ma la gente in questo periodo sì, è di Battiato che canta “Strani giorni, viviamo strani giorni” ed è la didascalia sovrapponibile a questo periodo da zona gialla, da ordinanze, da psicosi, da amuchina e gente che dice no, è solo un’influenza, oppure, ancora peggio “tanto muoiono solo gli anziani!” Direbbero lo stesso se si trattasse di un loro genitore o di un loro nonno? Lo sguardo dei milanesi fino a due settimane fa era sulla Cina, che non è vicina e all’improvviso è stato qui, nella capitale morale d’Italia, nel suo motore inceppato. La città è passata da lanciare messaggi da via Paolo Sarpi, la celebre e splendida China Town che ha annullato i festeggiamenti per il capodanno, a fare dichiarazioni dai navigli, da piazza Duomo dove le maschere di carnevale sono state sostituite dalle mascherine. Milano non si ferma. I primi giorni l’impatto sembra gestibile: è la settimana della moda, gira voce che Armani abbia sfilato a porte chiuse, e in quanto a chiusura le scuole lo erano già in parte per il carnevale. Aboliti coriandoli e baldoria la città si riversa nei supermercati: scaffali vuoti che manco nei Balcani degli anni ’90. Ma è una valanga che rotola e s’ingrandisce, e l’emblema di una Milano inaspettata e in ginocchio sono le saracinesche dei bar tirate giù alle 18. Il simbolo eterno assieme alla Madonnina, il rito dell’aperitivo, al bancone con bollicine-patatine-noccioline o al tavolo con una simil cena e il mojito, muore di botto. Codogno come Wuhan, mentre Milano diventa un posto che non è mai stato, rimodula la vita di tutti, disegna la propria linea Maginot sullo zerbino di casa, entra in una bolla scoprendosi fragile e forte, aperta e chiusa, eleva a contraddizione lo scandire dei giorni, con il bollettino dei contagi in Tv. L’immagine del cancello dell’Ospedale Sacco, talmente periferico che da lì si va a piedi a Baranzate, entra nei salotti di tutti, si siede a tavola coi milanesi che si chiedono soltanto: “quando finirà?” La metropolitana semi deserta regala percorsi più comodi, il telelavoro non è per tutti e le aziende si muovono a caso “non venite se utilizzate i mezzi”, “state a casa al primo starnuto!” Il delirio impera sui social, ma il milanese, imbruttito o no, ha ancora voglia di riderci su. Le mamme sclerano: blindate coi figli h 24 scoprono scenari apocalittici tra puzzle di 5400 pezzi e compiti via whatsApp. Nessuno si senta escluso. Tutti vorrebbero fare il tampone per tranquillizzarsi. Il weekend va pure peggio. La chiusura dei teatri e dei cinema dipinge Milano di grigio, si rimpiange la pioggia incessante di novembre che almeno consentiva di uscire muniti di ombrello e si sogna la fuga, ma attualmente all’estero i milanesi non sono particolarmente desiderati. Al centro commerciale sono aperti solo i negozi di alimentari: diventa un problema persino avere le camicie stirate. I trailer dei nuovi film e i poster esotici delle agenzie di viaggio sono un miraggio su cui tirare un’enorme croce. La salute prima di tutto, il disastro economico di rincorsa. Ognuno fa i conti con un’agenda ridotta a Chernobyl, prega di non ammalarsi, di virus o di altro, che in ospedale proprio no, adesso è meglio non metterci piede. Milano vuole rialzarsi, Milano non ce la fa. Alla terza settimana di chiusura delle scuole e di ogni centro di aggregazione, il milanese non sa più come prenderla. Osserva il calendario e capisce che si giocherà pure la festa della donna. Milano è stordita, guarda gli alberi in fiore e piange. Quindici giorni all’inizio della primavera, non si sa quanti alla fine dell’epidemia.
©DearMilano.it